Pandemia (mondiale) ed Epidemie (nazionali)

Dott. Florindo Pirone

Nel mese di dicembre del 2019 nella città cinese di Wuhan, con circa 11 milioni di abitanti, è iniziata un’epidemia causata da un nuovo coronavirus proveniente da una fonte animale (zoonosi) e designato SARS-CoV-2. 

Il SARS-CoV-2 si è progressivamente trasmesso ad altre parti del mondo, determinando in successione epidemie in Corea del Sud, Italia fino a giungere una globale pandemia.

Sebbene lo stesso agente patogeno sia stato individuato dappertutto, con le stesse caratteristiche di trasmissibilità e aggressività verso l’ospite umano, nel quale può giungere a causare una polmonite febbrile con grave insufficienza respiratoria, si osservano significative differenze fra paese e paese sia per quel che riguarda il suo grado di diffusione sia il numero percentuale di morti che determina.

Comparando ad esempio il numero di casi totali raggiunti al 27 giorno dal tempo in cui è stato registrato il centesimo caso, in Corea del Sud questo numero è di 8.961 e appare stazionario già da molti giorni, invece, in Italia è di 59.138 e continua a crescere esponenzialmente.  

Divergenze altrettanto rilevanti si osservano nei rispettivi tassi di letalità: circa dell’1% per la Corea del Sud e dell’8,5% per l’Italia, mentre l’OMS suggerisce una letalità generale del 3,4%.

Sembra pertanto importante cercare di capire da cosa dipendono queste discrepanze, sia al fine di conoscere l’andamento reale delle epidemie nelle diverse nazioni e soprattutto per poter valutare gli effettivi risultati delle misure contenitive volte a bloccare o a rallentare la diffusione della malattia.

Le due misure precedentemente indicate: il numero totale di casi riscontrati, con il suo correlato di numero di casi di nuovo riscontro in ogni giorno (incidenza), e il numero dei morti su tutti i casi riscontrati (letalità) costituiscono grandezze utili per studiare questi complessi fenomeni, compararne i risultati e cercare di interpretarne il significato.

1) L’incidenza epidemiologica si fonda sulla definizione di caso e sulle modalità pratiche di individuarlo quando presente. Ambedue questi punti sembrano chiari e semplici: non essendoci il Covid 19 in precedenza, ogni soggetto in cui viene rilevato è da considerare un nuovo caso; anche la rilevazione è abbastanza semplice e affidabile, costituita da un tampone naso/faringeo da inviare a un laboratorio di riferimento ottenendone il risultato nel giro di alcune ore.

Date tali premesse sembrerebbe non dover esserci problema nella raccolta di questi dati e nella loro comparazione fra le diverse nazioni, ma già a questo livello iniziale di osservazione sorgono alcune serie difficoltà. Infatti, essendo impossibile sottoporre tuttala popolazione al test, che fra l’altro dovrebbe essere ripetuto periodicamente per assicurarsi dello stato di ogni singolo soggetto, è necessario eseguire una selezione programmata dei soggetti da indagare; cercando di evitare di sottoporre a test i sani e nello stesso tempo di farsi sfuggire il meno possibile degli infetti. 

È evidente che un’ampia ricerca dei possibili contagiati (*) consente di scoprirne di più, mentre una sua limitazione a casi particolari può farne sfuggire molti. A questo scopo inizialmente l’OMS, con la WHO interim guidance del 27/02/20, ha proposto di sottoporre al test solo i pazienti acuti (in particolare se ricoverati) con sintomatologia compatibile con quelli da coronavirus, non riconducibile ad altra patologia, e che provenissero da zone dove l’epidemia era già in corso o che comunque fossero stati in contatto con altri soggetti positivi al test. 

Questa raccomandazione tende a limitare l’uso dei tamponi, riservandoli ai pazienti sintomatici, soprattutto se con una storia di precedenti potenziali contatti ad alto rischio per l’infezione.  Il non rimarcare l’utilità di eseguire i test il più possibile, inoltre, non stimola la ricerca approfondita di eventuali contatti pregressi che spesso sono lasciati allo spontaneo racconto del paziente o dei suoi parenti. (Questa situazione, purtroppo, si è verificata proprio all’inizio del focolaio epidemico Lombardo).

Più recentemente l’OMS ha rivisto questa raccomandazione relativa all’esecuzione dei test per individuare i casi positivi al coronavirus, ampliando  i soggetti da esaminare: a tutti i pazienti ricoverati in ospedale con sintomatologia compatibile con l’infezione, anche senza storia di contatti ad alto rischio; a pazienti anche con altri sintomi, ma fragili per la copresenza di altre malattie; a ogni persona (incluso gli operatori sanitari), che nei 14 giorni precedenti  è  stato in  contatto  con  una  persona sospetta  o affetta da covid 19 o con una storia di viaggio in zona geografica epidemica.  

Il cambio di strategia è evidente, come mostrato anche dalla dichiarazione pubblica del 17/03/20, da parte del Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’OMS: “Abbiamo un semplice messaggio per tutti i paesi: test, test, test…. Tutti i paesi dovrebbero essere in grado di sottoporre a test tutti i casi sospetti. Non possono contrastare questa pandemia a occhi bendati; dovrebbero sapere dove soni i casi”

Da questa sintetica descrizione si può evincere che se fra le varie nazioni non vi sono procedure standardizzate di rilevamento dei dati sui pazienti infetti dal coronavirus, quando si riscontrano significative differenze nel numero di casi che giorno per giorno vengono trovati e in quelli totali che ne derivano, diventa difficile capire quanta parte delle differenze è reale e quanta è da attribuire alla procedura adottata.  

Oltre a far conoscere meglio la reale estensione e progressione dell’epidemia, un sistema di rilevamento dati più aggressivo è stato invocato, insieme alle efficaci misure di distanziamento sociale, per spiegare il successo della Corea del Sud a identificare fin dall’inizio più di 8.200 soggetti contagiati con il virus e a rallentarne la trasmissione. 

2) Il secondo indicatore fondamentale, per seguire l’andamento dell’epidemia da coronavirus e per valutare l’efficacia delle azioni adottate per contrastarla, è la letalità: il numero dei morti (contagiati) rispetto a tutti i contagiati. Anche in questo caso le misure da effettuare sembrano chiare e inequivocabili per cui, di fronte a loro significative differenze tra i vari paesi, appare necessario cercare i sottostanti meccanismi causali che le generano. Ancora una volta, però, bisogna sottolineare che il sistema di rilevamento dei dati non è così semplice: prima di passare a ipotizzare i possibili determinanti di predetta difformità è opportuno esaminare in che modo le procedure adottate per calcolare la letalità possono essere fuorvianti. 

Essendo la letalità un rapporto fra un numeratore (i deceduti) e un denominatore (i malati), è comprensibile che se non si adoperano criteri uniformi per definire chi includere nel numeratore, il rapporto finisce per non essere omogeneo e quindi è inconfrontabile. Così, ad esempio, in un paese possono venir classificati morti per coronavirus esclusivamente quei pazienti che erano affetti da specifica polmonite virale e insufficienza respiratoria grave, mentre in un altro possono essere così classificati anche quelli fragili per età avanzata e altre comorbilità che il coronavirus contribuisce fatalmente solo a squilibrare.  (Per rappresentare questa sostanziale differenza di classificazione, da alcuni è stato proposto di distinguere i ‘deceduti da covid 19’ dai ‘deceduti con covid 19’, includendo nel numeratore solo i primi).  

Se a queste considerazioni si aggiungono i dubbi espressi in precedenza circa il modo di raccogliere i dati relativi alla totalità dei casi positivi, che costituiscono proprio il denominatore del rapporto della letalità, risultano ancora più numerosi i fattori in grado di confondere e causare un ingannevole confronto. Volendo esemplificare due di questi fattori nel contesto di cui si discute, il primo è costituito dalla stessa numerosità dei casi positivi ricercati e confermati, per cui più tamponi vengono eseguiti più aumenta il denominatore (riducendo così la letalità); il secondo, invece,  dipende dalle caratteristiche dei soggetti che vengono  individuati per il test, per cui se sono ricercati solo fra quelli sintomatici e di età più avanzata si selezionano i casi più gravi (elevandone di  conseguenza la letalità).

In effetti proprio questi tre fattori, fra le diverse ipotesi avanzate, sono stati addotti per spiegare l’elevata letalità dei pazienti Italiani affetti da coronavirus rispetto a quelli di altre nazioni: in Italia sarebbero stati eseguiti tampini su solo pazienti sintomatici e con età più avanzata, classificando insieme ‘deceduti per e da coronavirus’. L’effetto complessivo di questo sistema di rilevazione dati sarebbe stato quello di una letalità solo apparentemente più elevata.

È possibile farsi un’idea grossolana della plausibilità di predette considerazioni metodologiche, calcolando il rapporto di letalità sulla base elle diverse ipotesi avanzate.  Ad esempio, se un numero di 4.000 morti su 47.000 casi positivi rappresenta una letalità dell’8,5 %, che si discosta molto da quella media degli altri paesi che è del 4%, la situazione cambia completamente se si stima che il numero di casi asintomatici o paucisintomatici non rilevati sia il doppio (come creduto anche da diversi epidemiologi). In questo caso, infatti, la letalità italiana si dimezzerebbe, avvicinandosi al valore medio delle atre nazioni. Aggiungendo a questa ipotesi anche quella che la maggiore numerosità del numeratore dipenda anche da un diverso modo di classificazione diagnostica, ci si rende conto dell’importanza di un coerente e preciso sistema di rilevazione dati.  

3) Per cercare di prevedere l’evoluzione dell’epidemie, molti studiosi stanno cercando di simularne l’andamento con modelli matematici. Senza entrare nello specifico dell’argomento, che richiede sofisticate competenze specialistiche, merita qui di essere sottolineato come le necessità metodologiche e procedurali precedentemente segnalate sono importanti anche in questo ambito. 

Infatti, non disponendo di un accurato tasso di letalità, del numero di contagi e di una diagnosi definita per i decessi da Covid 19, è difficile se non impossibile costruire un modello affidabile di previsione dell’epidemia. Anche a tal fine sembra indispensabile l’allargamento del numero di tamponi a soggetti asintomatici, applicato in modo epidemiologicamente pianificato sul territorio nazionale.

Concludendo questa breve rassegna delle problematiche riguardanti i sistemi di rilevazione dati, e parafrasando la precedente raccomandazione del Direttore Generale dell’OMS, si potrebbe rivolgere ai vari paesi questo invito alla cooperazione: ‘Standardizzate, standardizzate, standardizzate!’

4) Anche fra le diverse Regioni dell’Italia si osservano significative diversità, che meritano di essere valutate anche per poter capire se siano necessari specifici interventi di sanità pubblica per correggere eventuali disfunzioni presenti a livello locale.

La prima differenza che si riscontra è quella delle letalità fra le prime cinque Regioni per diffusione dell’epidemia: Lombardia 14,5%, Emilia e Romagna 10,9%, Piemonte 8,0%, Toscana 5,1%, Veneto 4,2%.  Nella   Lombardia, per un paziente affetto da Covid 19 vi è una letalità più di tre volte elevata che nel Veneto, con una graduazione nelle altre tre Regioni. 

Se si analizzano anche i dati relativi a come vengono affrontati i soggetti positivi al Covid 19, le percentuali di ricovero in ospedale rispetto all’isolamento nel proprio domicilio, mostrano significative difformità: Lombardia 47,5%, Piemonte 48,7%, Toscana 53,4%, Emilia e Romagna 60,1%, Veneto 71,8%.

Non disponendo di informazioni più dettagliate, è impossibile formulare ipotesi plausibili sulle motivazioni di differenze cosi evidenti, che d’altra parte sarebbe importante comprendere per introdurre interventi volti a correggere eventuali distorsioni esistenti nelle specifiche organizzazioni dell’assistenza sanitaria.

Sulla base delle osservazioni e discussioni brevemente sintetizzate, un tema centrale appare quello dei test per individuare i casi infetti dal SARS-CoV-2, sia per conoscere l’andamento dell’epidemia che tracciare tutti i contatti dei soggetti risultati positivi e interrompere la catena di diffusione. 

Al riguardo si contrastano due atteggiamenti:1) quello inizialmente raccomandato dall’OMS, di sottoporre al tampone solo i casi sintomatici e altamente sospetti di essere affetti da Covid 19, al fine di diagnosticare la malattia; 2) quello aggressivo di eseguire il test in modo più ampio, anche su asintomatici venuti però a contatto con soggetti positivi, per prevenire l’ulteriore contagio (definito modello della Corea del Sud dal paese che più lo ha adottato e con grande successo).

Sembra, pertanto, opportuno esaminare i dati già disponibili nelle cinque regioni con più elevata diffusione dell’epidemia e che hanno adottato queste due diverse strategie, per valutare quale di esse ne venga corroborata.

Considerando il numero di casi risultati positivi, il numero di tamponi eseguiti e il rapporto fra i primi due, cioè la percentuale di infetti sui tamponi praticati, i risultati aggiornati al 23/03/2020 sono i seguenti: Lombardia (28.761, 73.242, 39%); EmiliaRomagna (8.535, 31.200, 27%); Veneto (5.505, 61.115, 9%); Piemonte (4,861, 13.560, 35%); Marche 2.569, 6.782, 37%).

Appare subito evidente che la percentuale più bassa fra i casi positivi rilevati e il numero di test eseguiti è quella della regione Veneta, che è quella che dichiaratamente ha adottato la strategia più aggressiva. 

È stato spesso sottolineato, ed è facilmente comprensibile, che quanti più tamponi in una popolazione vengono eseguiti, tanti più casi vengono potenzialmente rilevati; questa però costituisce una misura solo statica del fenomeno. Se invece si considera dinamicamente la procedura di eseguire più tamponi, alla ricerca anche dei possibili casi asintomatici (venuti a contatto con infetti o in ambienti ad alto rischio di contagio), si comprende che nel tempo i casi di nuova insorgenza vengono ridotti per l’azione stessa del contenimento permesso dalle informazioni ottenute.  

Solo così sembra possibile spiegare come mai nel Veneto si siano eseguiti tanti test, quasi quanti in Lombardia, ma il numero dei casi positivi sia tanto più basso.

Naturalmente questa interpretazione non si fonda su evidenze così forti da essere conclusiva, ma le potenzialità da essa offerte sarebbero talmente grandi da meritare un maggiore approfondimento e, se confermata, da essere applicata sul resto del territorio Nazionale al più presto. 

(*) C’è stata una polemica pubblica su questo argomento, nella quale sono stati avanzati dubbi sulle  varie motivazioni che hanno indotto a ridurre il numero di tamponi eseguiti e che sarebbero state anche di natura economica: ‘…dalle indicazioni dell’Oms non si deve derogare “altrimenti si possono determinare effetti collaterali; per esempio, il fatto di aver all’inizio effettuato troppi tamponi ha generato una focalizzazione dell’attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come paese di ‘untori”.

https://www.ilmessaggero.it/editoriali/luca_ricolfi/coronavirus_italia_errori_governo_calcoli_morti_contagi-5091141.html